Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: la procedura di allerta – i “fondati indizi della crisi”

 

Eravamo giunti, in conclusione del quarto appuntamento, a focalizzare la nostra attenzione sui “fondati indizi della crisi” che devono essere segnalati agli amministratori o all’imprenditore dagli organi di controllo. Qui si annida una prima opportunità per le PMI per provare a cambiare il modo di fare impresa. Iniziamo col dire che la parte normativa relativa all’allerta interna (e cioè alla segnalazione da parte degli organi di controllo societari) può rappresentare una svolta anche per le figure professionali che tradizionalmente affiancano l’imprenditore, chiamate come sono, queste figure (quali il commercialista, il consulente aziendale e, perché no, l’avvocato che abbia competenze in materia manageriale) ad aiutare lo stesso imprenditore nella pianificazione dell’attività di impresa.

Ora, venendo al punto, il legislatore della crisi ha dato dei parametri agli organi di controllo societari perché questi possano rilevare e segnalare, per l’appunto, i fondati indizi di crisi. E infatti ha stabilito, in particolare all’articolo 13, che costituiscono indicatori di crisi sia gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e all’attività imprenditoriale svolta dal debitore, sia i ritardi nei pagamenti che siano “reiterati” e “significativi”. Il legislatore, così, ha messo nel calderone degli indicatori della crisi sia indici che riguardano la “crisi” propriamente intesa, sia indici che riguardano l'”insolvenza”. E infatti, nei ritardi nei pagamenti “reiterati e significativi” riecheggiano gli inadempimenti che dimostrano l’incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni di cui alla definizione di insolvenza delineata all’art. 2 del nuovo Codice e di cui ho già detto nel corso del nostro primo appuntamento.

Gli squilibri, a loro volta, andrebbero rilevati attraverso degli indici tra i quali il legislatore espressamente annovera quello di liquidità (la cassa dell’impresa) e quello di solidità (la sostenibilità dei debiti per almeno sei mesi successivi), di cui ho già parlato pure nel nostro primo appuntamento quando ho focalizzato la nozione normativa di crisi di impresa. Poi dovrebbe intervenire il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili a elaborare una griglia di indici per ciascuna categoria di attività economica che permetta di prevedere la sostenibilità o meno dei debiti dell’impresa per almeno sei mesi successivi. Ma la cosa interessante è che è fatta salva la possibilità per ciascuna impresa di elaborare indici specifici più idonei a verificare il proprio stato di crisi e quindi questo significa che l’indice va valutato nella situazione concreta. Fatto sta che allo stato dell’arte, possiamo senz’altro dire che si tratta di indici, quelli configurati dal legislatore del Codice della crisi, meno severi rispetto a quelli che sono alla base delle valutazioni degli organi sociali collegate all’approvazione del bilancio. Mi spiego: gli amministratori quando approvano il bilancio devono verificare se esistono le condizioni per la continuità aziendale (e questo lo dice l’OIC 11); analoga e autonoma valutazione deve essere compiuta dalla società di revisione e dall’organo di controllo che è chiamato comunque a pronunciarsi sulla proposta di bilancio degli amministratori. Quindi la continuità aziendale che viene valutata ai fini dell’approvazione del bilancio presuppone la sostenibilità dei debiti per almeno dodici mesi e l’assenza di problematiche o incertezze che potrebbero rendere il debito insostenibile. Gli indici previsti, invece, dal Codice della crisi per le procedure di allerta si limitano a considerare un orizzonte temporale di soli sei mesi e riguardano solo parametri quantitativi. Vi è, quindi, il rischio concreto che il segnale di allerta arrivi quando l’impresa abbia già perso la continuità aziendale e, comunque, sia troppo tardi per virare o fare manovre efficaci volte a risolvere lo stato di crisi. Peraltro, poiché gli indici previsti dal Codice della crisi sono solo di natura quantitativa e non qualitativa, c’è anche il rischio che siano intervenuti nel frattempo fatti negativi rilevanti che, però, potrebbero avere il loro effetto sugli indicatori quantitativi in un orizzonte temporale superiore a sei mesi (come in caso di mancato rinnovo di una commessa che già si conosce) e che quindi non portano a rilevare i fondati indizi della crisi proprio perché non rientrano nel dettato normativo. Si vuol dire, in definitiva, che l’allerta rischia di non riuscire a fornire un segnale adeguatamente tempestivo.

In definitiva, è innegabile che il legislatore, per attivare un sistema di allerta più efficace, avrebbe potuto allargare le maglie del concetto di “crisi” e, quindi, fornire un sistema di indicatori tale da far rilevare i segnali di allerta con anticipo superiore ai sei mesi. Ma, così facendo, si sarebbe incorso in un rischio troppo elevato di falsi positivi, ovvero di casi in cui nonostante il superamento delle soglie, non sussistono poi in concreto rischi di probabile insolvenza. Allora, qual é la riflessione da fare? Se è vero che le imprese sanno che le azioni di risanamento sono imprescindibilmente legate a una dimensione temporale (ad esempio, l’azienda in grado di anticipare per tempo lo stato di insolvenza può dismettere le attività meno performanti a condizioni economiche comunque vantaggiose, l’azienda prossima all’insolvenza, invece, può trovarsi nella condizione di dover svendere i gioielli di famiglia o di dover cedere a sconto le attività che pure costituiscono il core business, e questo senza considerare tutti i costi indiretti di dissesto, come la perdita di clienti, di fornitori, etc.), se è vero tutto questo le stesse imprese possono organizzarsi per intervenire con largo anticipo rispetto al momento in cui la crisi stessa si manifesta e questo perché la crisi configurata dal nuovo Codice è una crisi ormai al suo ultimo stadio, se si fa eccezione per le crisi di imprese che soffrano solo di temporanea condizione di tensione di liquidità.

Quanto sopra vale soprattutto se le cause della crisi sono strutturali e quindi è possibile porvi rimedio solo trasformando il business, la struttura organizzativa e operativa dell’impresa o intervenendo sulla relativa struttura finanziaria. In questi casi si tratterà di effettuare trasformazioni che richiedono investimenti innovativi, disinvestimenti selettivi, iniezioni di nuove competenze manageriali, di nuovo capitale, nuovi equilibri di governance e quindi sono richiesti termini più lunghi. Per affrontare questo tipo di crisi, sono necessari uomini di business in grado di progettare una trasformazione dell’attività di impresa attraverso un piano discontinuo, una nuova struttura organizzativa e operativa. Competenze queste che l’OCRI – l’organismo di composizione della crisi davanti al quale viene portato l’imprenditore in crisi come vedremo nel prossimo appuntamento – che secondo il legislatore l’OCRI dovrebbe esprimere, ma su questo è lecito avanzare dubbi, se non altro perché le figure professionali coinvolte nell’OCRI dovrebbero essere più permeate da una cultura di controllo, piuttosto che di business.

E, in questa situazione, la svolta, il cambio di passo, può collegarsi solo all’utilizzo di diverse e più approfondite competenze manageriali dell’imprenditore o degli organi di governance. Ma come possono le imprese organizzarsi concretamente per rilevare la crisi addirittura prima rispetto al tempo di sei mesi previsto dallo stesso Codice della crisi? La dottrina aziendalistica ha avanzato varie ipotesi tra cui quella del c.d. “rating sintetico”: in sostanza, una ponderazione di quozienti di bilancio in grado di riprodurre il rating attribuito a società appartenenti al medesimo settore dell’impresa da analizzare. Se gli organi di controllo si dotassero di una rilevazione sistematica del rating sintetico della società, così come di altri sistemi che permettano una analisi della azienda più sistematica, più a 360° e su un periodo più lungo, disporrebbero di una base di confronto con l’organo amministrativo, per quanto limitata a parametri quantitativi. E il segreto sta proprio qui: nel creare un linguaggio comune tra amministratori e organi di controllo che possa portarli a un confronto costante e con un linguaggio comune, tale per cui quando il rating è negativo l’imprenditore o gli amministratori possano fare solo due cose:

  1. spiegare che ci sono invece indicazioni di qualità tali da giustificare un rating migliore dell’impresa rispetto a quello stimato in via sintetica e che considera inevitabilmente solo parametri quantitativi;
  2. individuare le soluzioni gestionali, operative e finanziarie che, in maniera convincente, possano evitare una possibile insolvenza.

Un’opportunità questa che, ripeto, non è un obbligo di legge ma è rimessa all’autonomia del mondo delle imprese.

Alessandro Palma