Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: la definizione di “crisi” e la sua rilevanza

Com’è noto ai più, il 14 febbraio scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.

Si tratta di un intervento normativo che ha la pretesa di essere organico e che incide profondamente, da un lato, sulla vecchia legge fallimentare e, dall’altro lato, dovrebbe incidere ancora più significativamente sulla quotidianità della vita dell’imprenditore e, alla distanza, sul modo concreto di fare impresa nel nostro paese.

Il fatto stesso che il legislatore abbia inteso racchiudere questa nuova normativa in un “Codice”, dà il segno dell’importanza di una materia che, complici anche le sollecitazioni provenienti dall’ordinamento europeo e internazionale, è considerata strategica per la ripresa economica.

L’elemento di novità di questa disciplina è indicato già nell’intitolazione del Codice, là dove si affianca al concetto di “insolvenza” e lo si delinea prima di questo, il concetto di “crisi” dell’impresa. E già, perché prima di ora, crisi e insolvenza non si distinguevano, ma erano in rapporto di genere a specie: nell’insieme crisi, ci stava il concetto di insolvenza, tant’è che, nella mini riforma del fallimento risalente al 2005, la “crisi d’impresa” è stata individuata come presupposto per accedere al concordato preventivo.

E invece, con il nuovo Codice, ecco che il legislatore scolpisce nella pietra il concetto di “crisi” e allo stesso aggancia tutta una serie di istituti, la cui concreta applicazione dovrebbe portare a un cambio di passo nell’approccio ai momenti di difficoltà e, più in generale, alla gestione e alla cultura dell’impresa. Questo, se non altro, in ragione di nuovi e precisi obblighi posti dal legislatore in capo agli organi sociali e a diversi altri attori del nostro sistema economico; nuovi e precisi obblighi cui si collegheranno necessariamente nuove responsabilità.

Iniziamo per gradi, con il concetto di crisi, delineato dall’articolo 2 del Codice come “stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate“.

Senza voler semplificare questioni interpretative complesse in ordine al significato di “probabile” e di “obbligazioni pianificate“, è chiaro che il legislatore ha accolto un concetto di crisi anzitutto finanziaria: se non c’è cassa per pagare le obbligazioni scadenziate a sei mesi, allora l’impresa è in crisi.

E’ vero che il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, cui è stato delegato il relativo compito, adotterà sicuramente altri e molteplici indici cui agganciare il giudizio di sussistenza dello stato di crisi dell’impresa, ma l’indice di liquidità (la cassa dell’impresa), insieme a quello di solidità (la sostenibilità dei debiti per almeno sei mesi successivi) – espressamente menzionati dal legislatore -, sono destinati a farla da padrone.

Con questo si vuol dire che il legislatore mira a configurare un’impresa che prima di preoccuparsi di crescere, deve preoccuparsi di essere allo stesso tempo liquida e solida.

In particolare, d’ora in poi, impresa, organi sociali e i diversi attori individuati dal legislatore si dovranno attrezzare, anzitutto, per capire quando l’impresa è entrata in quello stato di difficoltà economico-finanziaria che individua la crisi (e qui c’è il tema degli “assetti adeguati“) e, poi, darsi da fare per superare questo stato di difficoltà (e qui c’è il tema degli “strumenti di allerta“).

Alessandro Palma