Il termine “assetti” deriva dal verbo “assettare”, che significa “mettere o rimettere in ordine, sistemare” (G. Devoto, G. Oli, Vocabolario della Lingua Italiana, Le Monnier, 2017). La mente va subito a quella “organizzazione” che costituisce il cuore della fattispecie che descrive “l’attività dell’imprenditore” e la nozione di “azienda” di cui agli articoli, rispettivamente, 2082 e 2555, inseriti nel Codice civile sin dal 1942.
Solo che per lungo tempo, almeno fino all’entrata in vigore della Riforma delle società di capitali del 2003, il Legislatore si è occupato dell’output dell’impresa e gli studiosi si sono occupati del perché esistesse l’impresa: nessuno si è occupato e preoccupato di come l’impresa funzionasse.
L’impresa era considerata una scatola nera, modello black box 1 (nella teoria dei sistemi, un modello black box è un sistema che, come accade per una scatola nera, è descrivibile nel suo comportamento esterno ovvero solo per come reagisce in uscita [output], ma il cui funzionamento interno è non visibile o ignoto). Quindi, abbiamo avuto una impresa considerata come black box e, in maniera correlata, abbiamo avuto un “rischio” di impresa identificato essenzialmente nella delusione dell’aspettativa dell’imprenditore di guadagnare e di avere successo con la sua attività economica.
Tutto ciò, se non si vogliono disdegnare considerazioni di carattere antropologico, in perfetta corrispondenza con il modo millenario che l’essere umano ha di considerarsi scisso, separato e indipendente dal resto del mondo.
Quando le cose andavano male e c’era, quindi, il dissesto dell’impresa, il mercato non subiva – si pensava ingenuamente (ma lo possiamo dire ora) – più di tanto pregiudizio, dal momento che liquidando l’azienda i fattori produttivi venivano riallocati sul mercato e la ricchezza distrutta si sarebbe così, in tesi, rigenerata.
A cavallo della fine del secolo scorso, si è capito che la decozione di un’impresa si porta dietro, invece, esternalità negative e, quindi, pregiudizi non solo per l’impresa stessa ma per l’intera collettività; e, così, si è iniziato a dare importanza alla crisi come “momento” che precede l’insolvenza. Crisi che, proprio per evitare gli effetti pregiudizievoli della decozione dell’impresa che si propagano sulla collettività a macchia d’olio, deve essere tempestivamente rilevata dall’imprenditore e, in questa prospettiva, essere subito affrontata (in tal senso si veda il secondo comma dell’art. 2086 c.c., così come interpolato dal CCII 2).
Non solo! Si è presa consapevolezza che l’industrializzazione ha da tempo determinato l’insorgere di nuovi rischi (di mercato, tecnologici, finanziari, da reato, gestionali, ambientali e così via), oltre a quello di perdita della continuità aziendale, molti dei quali sono un costo per la collettività di cui nessuno paga il conto. Il sociologo tedesco Ulrich Beck, nel suo celeberrimo libro “La società del rischio”, ci ammoniva, già prima del disastro di Chernobyl, del fatto che il rischio di danni per la società, prodotto dalla attività di produzione della ricchezza, è un rischio fuori controllo. In ragione dello smisurato sviluppo della tecnica, secondo il noto sociologo, si produce la torta avvelenata del rischio e gli operatori fanno a gara per prendersi la fetta più piccola, in ciò aiutati dal fatto che questo rischio produce danni lungolatenti; danni che si manifestano, quindi, anche dopo molto tempo e, soprattutto, si producono in maniera diffusa e globalizzata, con la conseguenza che non permettono di individuare centri di imputazione di responsabilità. Ulrich Beck parlava appunto di “irresponsabilità organizzata” e Max Horkheimer, filosofo e sociologo tedesco, al riguardo ribadiva il concetto parlando della tecnica come di una macchina che, scaraventato giù il conducente, guidava libera nello spazio.
Ecco che in questo contesto di mondo, è intervenuta, nel nostro Paese, la Legge delega per la riforma della disciplina della crisi dell’impresa e dell’insolvenza (la c.d. “Riforma Rordorf”), che, nella prospettiva di rilevazione tempestiva e prevenzione della crisi, ha stabilito che il Governo prevedesse (art. 14, lett. b), L. 155/2017) “il dovere – si badi bene, anzitutto – dell’imprenditore e – poi – degli organi sociali di istituire adeguati assetti organizzativi per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale…”. Ed eccoci arrivati all’interpolazione, da parte dei decreti delegati, del citato art. 2086 c.c.: norma che prescrive chiaramente “come” l’impresa deve funzionare al suo interno.
A questo punto, entrano in gioco la sensibilità e la visione dell’operatore di diritto, che, nell’attività di interpretazione, deve fare una scelta:
A. può sminuire la portata innovativa del dovere di istituire adeguati assetti posto direttamente in capo all’imprenditore: sostenendo così che questo dovere c’era già prima con l’art. 2381 c.c.; è un dovere che riguarda gli organi sociali e oggi, con il CCII, riguarda tutte le altre società diverse dalla S.P.A. e persino l’impresa individuale (se si evita di dare troppa importanza alla differente descrizione di cui all’art. 3 del CCII, che prescrive il dovere dell’imprenditore individuale, anziché di adottare adeguati assetti, di adottare “misure idonee” a rilevare tempestivamente la crisi). Questo dovere di istituire adeguati assetti è stato certamente funzionalizzato alla rilevazione tempestiva della crisi, introducendo nuovi doveri in capo agli organi sociali, ma, una volta puntualizzato quanto appena detto e indagati questi nuovi doveri, è tutto qua, fine della storia;
B. può e forse deve – a parere di chi scrive – farsi interprete di un diritto poietico e, così, valorizzare la novità normativa, prendendo e dando atto, anzitutto, che è stata data finalmente attuazione al dettato costituzionale di cui all’art. 41 Cost., che garantisce la libertà della “iniziativa economica privata” ma a due condizioni: (i) che non sia “in contrasto con l’utilità sociale e a danno di salute, ambiente, sicurezza, libertà (evidentemente, degli altri) e dignità umana” e (ii) che “possa essere indirizzata e coordinata (dalla legge appunto) a fini sociali e ambientali”. Se l’interprete valorizza questa novità normativa, non potrà non giungere, anzitutto, alla conclusione che il “rischio d’impresa” consiste nel rischio che l’impresa generi esternalità negative che non assorbe e scarica sulla collettività. Il “rischio d’impresa”, poi, non è solo quello collegato alle conseguenze della “crisi economico-finanziaria” che va rilevata tempestivamente ex art. 2086, comma secondo, c.c. e che può portare alla perdita della continuità aziendale e, infine, all’insolvenza; è anche il rischio che l’impresa generi pregiudizi, come detto, per la salute, l’ambiente, la sicurezza, la dignità umana, etc.. Del resto, con un colpo di coda – non si sa quanto consapevole – il Legislatore delegato ha prescritto il dovere di istituire adeguati assetti (anche e) non solo in funzione della crisi, con ciò dovendosi intendere, per l’appunto, che il rischio che l’imprenditore deve gestire con lo strumento degli adeguati assetti è anche altro rispetto alla crisi economico-finanziaria. E nessuno, per carità, parli di eccesso di delega; si fa prima, piuttosto, ad andare in giro bendati se non si vuole guardare in faccia la realtà.
Beninteso, sappiamo tutti come sono andate le cose: nelle intenzioni del Legislatore, l’entrata in vigore immediata del nuovo art. 2086 c.c. era funzionale a spronare, da subito, gli operatori di impresa a un nuovo approccio, ovverosia a considerare, nello svolgere la loro attività, la prevenzione e la gestione preventiva dei rischi, soprattutto (ma non solo) di crisi economico-finanziaria.
Il COVID, la guerra in Ucraina, la crisi energetica e gli altri scenari macroeconomici e – perché nascondercelo? – una certa cultura legislativa interprete della tendenza culturale neoliberista ad avversare l’intervento diretto dello Stato nei meccanismi di funzionamento dell’impresa, hanno portato a modificare, almeno in parte, quello scenario iniziale. Ma l’interprete non deve scoraggiarsi di fronte al cambio di rotta “parziale” del Legislatore nazionale, perché la norma sugli adeguati assetti c’è, non è mai stata toccata ed è direttamente collegata al precetto di cui al menzionato art. 41 Cost..
Peraltro, lo stesso interprete non può nascondersi dietro il diritto unionale adducendo che il Legislatore nazionale ha cambiato rotta perché ha dovuto recepire la Direttiva Insolvency n. 1023/2019. Infatti, la Direttiva Insolvency parla, al suo 1° Considerando, di garantire “benefici e possibilità” alle imprese e agli imprenditori “sani”, sia pure “in difficoltà finanziaria”, e agli imprenditori “onesti” (che siano divenuti) “insolventi o sovraindebitati…” (“meritevolezza dell’imprenditore”). Ora, escludendo che gli aggettivi “sani” e “onesti” riferiti agli imprenditori possano avere un significato moralistico o, peggio, che non abbiano alcun significato, pare chiaro a chi scrive che i benefici e le possibilità che la Direttiva prescriveva ai Legislatori nazionali di dare all’imprenditore si basassero su una certa “meritevolezza” di quest’ultimo, alla luce dei meccanismi approntati da ciascuno Stato per valutarla. È altrettanto chiaro che precise norme eventualmente poste dal nostro Legislatore, nel senso di mettere barriere di “meritevolezza” all’accesso alle misure di ristrutturazione preventiva e regolazione della crisi, sarebbero state a forte rischio di impopolarità; rischio difficile da accettare e gestire per chi è quotidianamente alla ricerca di consenso (del resto, già prima di dare attuazione alla Direttiva Insolvency, il Legislatore del CCII aveva espunto, dall’art. 4 dello stesso Codice, il precetto rivoluzionario secondo cui “il debitore deve assumere obbligazioni in modo prudente e proporzionato alla propria capacità patrimoniale”; precetto la cui applicazione avrebbe portato davvero lontano in termini di responsabilizzazione delle condotte del debitore). Quindi, all’interprete di un diritto creativo, poietico, ovverosia di un diritto che non si accontenta di regolare condotte, ma uniforma la realtà a precisi punti di equilibrio, non resta che cimentarsi con ciò che è rimasto, che c’è ora, per poter dare attuazione al disegno originario (disegno dell’intervento precoce e della gestione preventiva dei rischi d’impresa, che – si badi bene – non è stato mai apertamente rinnegato da nessuno) e al precetto costituzionale di cui all’art. 41 Cost..
In particolare, del disegno originario del CCII, con la sua definitiva entrata in vigore, rimane la funzionalizzazione degli adeguati assetti, anche e soprattutto, a interessi esterni all’impresa; rimane l’art. 2086 c.c., con il suo dovere, per qualsivoglia impresa, di istituire adeguati assetti idonei a prevenire il rischio che si generino esternalità negative e, tra queste, l’insolvenza. E non è poco, se si traggono le dovute conseguenze: gli adeguati assetti devono essere intesi quindi non più (o meglio, non solo) come strumento (si veda l’art. 2381 c.c.) di governance per la ricerca dell’efficienza dell’impresa in sé stessa, bensì anche e soprattutto come strumento di gestione del “rischio” esterno all’impresa. E ciò al punto da far nascere “obblighi” che magari tali non sarebbero se non sotto la luce di questa nuova funzionalizzazione degli adeguati assetti 3.
In conclusione: ogni impresa, grande o piccola che sia e a prescindere dalla sua forma, deve essere organizzata con un sistema integrato di gestione dei rischi – dimensionato sulla base della “natura” e “dimensione” dell’impresa stessa – che procedimentalizzi la acquisizione di informazioni funzionali alle decisioni dell’imprenditore; decisioni che, d’ora in poi, devono essere rivolte a conseguire il successo, ma devono anche essere attente a non provocare danno alle sfere di interessi esterni all’impresa in qualche modo toccati.
Si può dire, con un’immagine suggestiva ma che rende bene l’idea, che oggigiorno “successo” e “responsabilità dell’impresa” sono diventati due vagoni di un unico treno destinato a viaggiare lungo lo stesso binario degli adeguati assetti!
All’interprete (di un diritto poietico) spetta lo sfidante compito di trarne le dovute conseguenze giuridiche.
A cura di Alessandro Palma, Founder di Studio Legale Palma
2 “L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.
3 Si pensi all’adozione di un modello (MOG) ex D. Lgs. 231/2001 che, di per sé, non è doverosa ma potrebbe diventarlo, nell’ipotesi in cui, in relazione alla attività di una determinata impresa, sussiste il rischio della commissione di reati (ad esempio, in materia ambientale): se in un caso come questo un MOG non dovesse essere adottato e, in futuro, venisse accertato il compimento di reati, la condotta omissiva sarà sicuramente fonte di responsabilità civile e ciò proprio per violazione del dovere di istituire adeguati assetti ex art. 2086 c.c. in combinato disposto con quanto prevede, per l’appunto, il D. Lgs. 231/2001.