La vera svolta dell’imprenditorialità italiana che può esserci dietro il nuovo art. 2086 c.c. (così come riformato dal CCII) [Il cigno bianco®]
La tesi, avanzata e solo in parte sviluppata dal sottoscritto nel webinar del 30 settembre 2021 presso il Centro Studi Borgogna (dal titolo “La (ir)responsabilità organizzata dell’imprenditore e degli organi sociali, dopo e al di là del CCII“, che potete vedere aprendo il video all’interno dell’articolo) e che svilupperò in articoli di prossima pubblicazione, è la seguente:
I) gli assetti adeguati sono lo strumento principale tramite cui l’impresa deve gestire la propria attività (che è oggi, sostanzialmente, attività di gestione dei rischi e tra questi, anzitutto, del rischio della “crisi” e della conseguente perdita della continuità aziendale);
II) il legislatore del CCII, con la riforma dell’art. 2086 c.c., ha posto questo dovere direttamente in capo all’imprenditore, trasformando la norma sugli assetti adeguati da regola di governance interna (art. 2381 c.c.), da metro di misura di responsabilità degli organi sociali, a regola ANCHE e SOPRATTUTTO di governance esterna;
III) l’adeguatezza degli assetti è diventata, per così dire, regola disciplinante sin dall’inizio il rapporto tra imprese e/o tra l’impresa e i terzi che entrano in contatto con essa. A partire dall’entrata in vigore del nuovo art. 2086 c.c., come nella negoziazione ai fini della conclusione del contratto c’è la clausola generale di “buona fede” a governare la trattativa e, in particolare, c’è il dovere delle parti di “comportarsi secondo buona fede” (art. 1337 c.c.), così nel rapporto tra imprese -e, comunque, nel rapporto in cui una impresa svolge la sua prestazione caratteristica- c’è la clausola generale sugli “assetti adeguati” a governare il momento precedente la negoziazione; e ciò con la prescrizione del dovere dell’imprenditore collettivo di “istituire un assetto […] adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” (art. 2086, 2° comma, c.c.).
Se la validità di questa tesi fosse dimostrata, quando si contratta e ci si relaziona con un imprenditore collettivo, si può e si deve fare affidamento sul fatto che lo stesso sia organizzato e strutturato per stare in maniera “affidabile” sul mercato. Da ciò deriva una serie di corollari e, primo tra questi, (forse) proprio il dovere da parte dell’impresa di assumere diligentemente le proprie obbligazioni; obbligazioni da assumere, quindi, sulla base di una valutazione prognostica della propria capacità di adempimento, qualificata proprio dalla esistenza dello strumento degli assetti adeguati.
Ovviamente, una volta che la crisi si è manifestata, la responsabilità e la conseguente obbligazione risarcitoria della società serve a poco in concreto; per contro, se un approccio di questo tipo venisse coltivato e applicato nella fase fisiologica dei rapporti tra imprese, potrebbe costituire il primo livello di emersione anticipata della crisi e quindi della sua prevenzione: ad esempio, una impresa che non riesca a rendere la prestazione caratteristica e che “subisca” tempestivamente la risoluzione dei rapporti contrattuali per carenza o inadeguatezza dell’assetto (nel mio intervento faccio un esempio attraverso l’applicazione dell’istituto dell’anticipatory breach [Cass. 23823/2012; Cass., 10546/2015]), magari “esce” dal mercato prima di fare danni a sé stessa e all’intera collettività.
È altrettanto ovvio che sono temi da approfondire, prima di farli approdare nelle aule dei tribunali, ma credo che il momento sia propizio per ragionarci su, se si vuole superare il modello antropologico dell’imprenditore italico tutto genio e sregolatezza, noncurante del momento organizzativo dell’impresa.
Buona visione!