Considerazioni sparse in materia di mobbing: nozione, interessi e tutele

Le riflessioni che seguono sono quanto emerso dal convegno “Mobbing e Stalking: aspetti penali, procedurali e civili” del 26 marzo 2011. Il tema del mobbing è stato affrontato dal punto di vista, complesso, della responsabilità civile. Nello specifico:

  • il mobbing ha uno spazio tutto suo nel nostro codice civile?
  • I rimedi a disposizione degli addetti ai lavori per affrontare questo problema sono sufficienti?

Dato atto che nell’ordinamento nazionale, allo stato, non esiste una nozione unitaria legislativamente data del mobbing, il Relatore ha passato in rassegna, con una veloce carrellata, le fonti legislative che hanno riguardo al tema oggetto di trattazione (Risoluzione del Parlamento Europeo del 20 settembre 2001; Legge della Regione Lazio del luglio 2002, n. 16 [dichiarata costituzionalmente illegittima nel 2003 dalla Corte Costituzionale], etc.).

GLI INTERESSI TUTELATI DALLA LOTTA AL MOBBING

Per provare a individuare il bene che si vuole proteggere con il predetto istituto, è passato, poi, a parlare degli interessi sottesi all’introduzione dell’istituto giuridico ‘mobbing’. Inteso come fenomeno osservabile in natura, non costituisce certamente un fenomeno nuovo, ma solo di recente percezione, e ciò a seguito della crescente attenzione attorno alla dimensione relazionale, psicologica e motivazionale dell’uomo e, in primo luogo, dell’uomo in quanto lavoratore.

Sempre parlando degli interessi in gioco, il Relatore ha messo in evidenza che sullo stesso piatto della bilancia – utilizzabile dall’operatore di diritto per il contemperamento di interessi – vi è anche l’interesse delle organizzazioni imprenditoriali intelligenti, in quanto il mobbing costituisce inconfutabilmente un fattore di inefficienza per l’attività d’impresa. Partendo da tale constatazione fattuale, il Relatore ha sorpreso la platea sottolineando come ci si trovi innanzi al paradosso che vede l’azienda rispondere alle conseguenze di un evento del quale essa stessa è danneggiatain prima battuta.

La conclusione di questa prima parte del discorso è stata nel senso che non dovrebbe esserci alcun dubbio sulla rilevanza giuridica del fenomeno, tanto più che tutelando il mobbizzato si tutela anche ciò che gli sta attorno: e così, oltre all’impresa in cui lavora, la sua famiglia (è stato fatto riferimento al “doppio mobbing” per significare la situazione mortificante di chi, escluso o emarginato nell’ambiente di lavoro, finisce con l’essere emarginato anche dalla famiglia che, inizialmente – almeno si spera – gli dà sostegno).

Individuato nella dimensione relazionale, psicologica e motivazionale dell’uomo il bene che principalmente si vuole proteggere contro il mobbing, il Relatore si è cimentato nella ricerca della relativa definizione giuridica. E così, partendo dall’alto, ha fatto riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (recepita di recente dal Trattato di Lisbona e divenuta diritto vigente anche per l’Italia), che riconosce addirittura, all’art. 1, la inviolabilità della dignità umana e, più avanti, il diritto all’integrità fisica e psichica del lavoratore; per passare, poi, alla Costituzione (in particolare, all’art. 2 sui diritti inviolabili dell’uomo, all’art. 3 sulla pari dignità sociale, all’art. 4 sul diritto al lavoro, all’art. 32 sulla tutela della salute e all’art. 41 sul divieto per l’iniziativa economica privata di recare danno, oltre che alla sicurezza e alla libertà, alla dignità umana); e per arrivare, infine, al codice civile e, in particolare, all’art. 2087, che prevede l’obbligo dell’imprenditore di tutelare non solo l’integrità fisica ma anche la personalità morale del lavoratore.

Alla luce delle suddette indicazioni, il bene che si intende proteggere contro il mobbing è stato definito “dignità umana e professionale” dell’uomo e, in primo luogo, dell’uomo-lavoratore.

TUTELE ANTI – MOBBING

Di particolare interesse, poi, il discorso attinente alle tutele; incentrato in primo luogo sulla portata applicativa dell’art. 2087 c.c.. Il Relatore, premettendo che, per l’applicazione della suddetta norma, a venire in rilievo è solo il bene protetto (“personalità morale”) che si assume leso, ha puntualizzato che, se parlare di atti molesti e vessatori può avere un’indubbia valenza descrittiva (volta a sintetizzare i tipi di atti che possono avere come effetto la lesione della dignità del lavoratore), è tutto da dimostrare che parlare di atti molesti e vessatori abbia pure una valenza precettiva.

Piuttosto, occorrerà capire quando si avrà lesione della personalità morale/dignità e, in tal senso, ha condiviso l’opportunità di stabilire quando si debba considerare superata la soglia di un’offesa apprezzabile al bene tutelato“personalità morale”/“dignità”, salvo dissentire da chi àncora questa soglia alla frequenza e alla ripetitività nel tempo degli atti vessatori, ovvero all’intenzionalità delle vessazioni.

Ciò perché, ha insistito il Relatore, applicando l’art. 2087 l’operatore deve guardare solo al disposto dell’art. 1218 c.c. e, quindi, verificare se l’imprenditore, di fronte ad un evento di lesione della personalità morale del lavoratore, abbia eseguito esattamente o meno la prestazione a suo carico approntando, prima di allora, quelle “misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, (erano) necessarie a tutelare lo stesso lavoratore”.

Il Relatore, dopo aver messo in guardia dal pericolo di scivolare verso una concezione eccessivamente paternalistica dell’art. 2087, tendente alla creazione di una sorta di responsabilità oggettiva del datore di lavoro per tutto ciò che accade al dipendente nel luogo di lavoro, ha tratteggiato le differenze che si registrano nell’invocare, rispettivamente, la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale dell’autore della lesione, soffermandosi su vantaggi e svantaggi per il datore e per il lavoratore in entrambe le ipotesi.

Ha sottolineato, in particolare, che è nel caso in cui viene invocata la responsabilità extracontrattuale che la fattispecie si arricchisce di un nuovo elemento, costituito dall’atto o fatto illecito, per lo più doloso, che ha determinato la lesione della personalità morale/dignità del lavoratore: ed è qui che acquisterebbe rilievo il fatto doloso (ovvero l’intenzionalità delle vessazioni, intesa come disegno strategico volto ad espellere o semplicemente isolare o fare del male al lavoratore), consentendo esso di dare una lettura unitaria alla vicenda che si pone di volta in volta all’attenzione del giudicante e, così, di arrivare a qualificare come illecito e a sanzionare atti o fatti che considerati singolarmente non avrebbero nulla di illecito.

Ed è qui il valore aggiunto dell’utilizzo del termine mobbing e la conseguente autonomia che questa fattispecie potrebbe avere; valore aggiunto costituito dalla possibilità di sanzionare e reprimere condotte di per sé lecite, quando le stesse siano connotate da un progetto persecutorio unitario, piuttosto che da frequenza e ripetitività e diventino, perciò, qualificabili come illecito. Illecito da qualificarsi come extracontrattuale e senz’altro da perseguire per provare a coltivare l’ambizione precipua dell’operatore di diritto di non lasciare vuoti di tutela nell’ordinamento.