Il desiderio del desiderio degli altri

Di Alessandro Palma

La principale menzogna che pervade il contesto sociale e culturale del nostro tempo è la menzogna della libertà individuale senza “se” e senza “ma” e cioè, l’idea che l’essere umano è centrato su se stesso, che l’essere umano ha come compito fondamentale quello di coltivare la propria auto-affermazione, la propria indipendenza, la propria autonomia. L’essere umano, ai nostri tempi, è quindi pensato come capace di auto-generarsi, di auto-fondarsi. E questa è una menzogna perché nega la ontologica dipendenza costitutiva che lega un essere umano all’altro: non c’è vita umana senza la presenza dell’altro, senza il legame con l’altro. Il legame con l’altro nasce con la nascita della vita: il bambino grida, il genitore risponde! Il grido senza risposta dell’altro è vita che si perde nel buio della notte, vita destinata all’abbandono assoluto. E invece, oggi, è diffusa la credenza che ciò che conta è l’“uno”, il godimento dell’“uno”, la capacità dell’“uno” di accaparrarsi – attraverso la sua libertà – quote sempre più alte di godimento. Questa è la menzogna del farsi da sé, del farsi un nome da sé, senza passare attraverso il legame con l’altro [questi pensieri sono liberamente tratti dalle opere e dalle conferenze di due celeberrimi psicanalisti: Jacques Lacan e Massimo Recalcati].

Ora, se è vero, da un lato e contrariamente a quanto oggi si vorrebbe far ritenere, che la vita di ogni essere umano è indissolubilmente legata a quella degli altri essere umani, è altrettanto vero che, quando entriamo in relazione con altri, spesso ci “facciamo male” e non usciamo quasi mai da questa relazione indenni: la nostra affettività si scontra con la realtà del mondo, con la materialità del nostro corpo, con la resistenza che gli altri oppongono al nostro desiderio; desiderio – nel senso di cui parla la psicanalisi – che ha come oggetto il desiderio dell’altro, che è inteso come desiderio di essere desiderato dall’altro, di essere riconosciuti nella propria vocazione, nelle proprie attitudini, nelle proprie peculiarità fisiche e psichiche. Ed è proprio questo scontro con la realtà del mondo, con il giudizio e le aspettative degli altri, ai quali – è inutile negarlo – siamo indissolubilmente legati, che ci porta a reprimere i nostri sentimenti, la nostra affettività, il nostro desiderio più profondo nel senso che ho appena detto. Il tentativo disperato cui quotidianamente si cimenta l’essere umano consiste nel mettersi in condizione di non “rimanerci male”, di non soffrire e di arrivare a fine giornata indenne; e, così facendo, tradisce sé stesso, tradisce la propria dimensione più autentica, che è quella affettiva, emozionale! Proprio qui, infatti, si annida un’altra grande menzogna dei nostri tempi: l’illusione di poter controllare i nostri pensieri, depurandoli dalle emozioni, dalla miriade di tonalità affettive che connotano gli stessi pensieri (scriveva Nietzsche: “Dietro ogni persona si nasconde un affetto”).

È forse giunto il momento di guardarci allo specchio dei sentimenti, per riconoscerli, anzitutto, nel rapporto con noi stessi e poi portarli al di fuori, senza paura, senza vergogna, nella relazione con l’altro, con gli altri esseri umani che ci capita di incontrare nella vita. Come? Dando spazio al desiderio che ognuno di noi ha di essere desiderato dall’altro, lasciando briglia sciolta agli affetti e alle emozioni che ci spingono verso (o ci respingono da)gli altri; quegli altri di cui non possiamo fare a meno anche se lo volessimo e con i quali – a dispetto della nostra voluntas – entriamo in relazione prima con la nostra interiorità affettiva e poi con il pensiero.

Cari colleghi esseri umani, quindi – che ci piaccia o meno – siamo indissolubilmente legati gli uni agli altri e siamo tutti in balia dei nostri affetti e delle nostre emozioni. Vale forse la pena di prenderne consapevolezza e di rendere coerenti le nostre azioni a questa presa d’atto! Del resto, il rischio che corriamo è quello di riportare qualche ferita, qualche frattura (tutti noi abbiamo qualcosa che è andato storto, che non ha funzionato); la grande speranza che possiamo coltivare è di trasformare il dolore in poesia (tutti noi, nelle relazioni affettive, siamo unici, irripetibili e non rimpiazzabili, almeno nel ricordo di ciò che è stato, che ha significato per l’altro la relazione con noi).